Monkeys from Space: recensione del disco omonimo

redazione
 



Con “Monkeys from Space”, il quartetto costruisce un’opera che fonde il delirio con l’illuminazione. Blues Elettro Rituale è portale d’accesso a un mondo dove musica e simbolo coincidono. Banana sattva elabora la caduta dello spirito cosmico in chiave ludica e mistica. In Dojo Song, la narrativa esoterica si plasma su un groove spezzato, evocando scenari iperreali. Il vertice lirico arriva con Prometeo, archetipo del dono e della condanna. Elephant Foot è la materia che implode, un requiem per la tecnica impazzita. Call the Police incarna il caos moderno, tra disordine urbano e giustizia fallace. Glacier 51 riflette sul destino ineluttabile e sulla bellezza sacrificata. Con Free Your Mind, la band suggerisce un’uscita: la via interiore, quella dei sogni. Un album che chiede di essere ascoltato con attenzione, e poi lasciato risuonare dentro.

INTERVISTA ALLA BAND



Com’è nato il progetto Monkeys from Space? È stato un colpo di fulmine o un’evoluzione?
Non è stato pianificato. È cresciuto come crescono certe piante nei film post-apocalittici: tra le crepe, nei silenzi, nel caos. Lidea di partenza era quale di creare un mondo sonoro dove potessero vivere tutte le cose che nella realtà ci sembravano troppo strane, troppo emotive o troppo glitchate per stare in piedi. Quindi sì, alla fine diremmo che è stato un colpo di fulmine… nato da un cortocircuito evolutivo. E poi ci piace suonare insieme, potrebbe bastare solo quello.
 
Avete scritto l’album come un racconto unico o ogni traccia è nata indipendentemente?
Ogni traccia è nata da sola, ma poi ci siamo ci siamo accorti che raccontavano più o meno tutte la stessa storia, solo da angolazioni diverse. O forse raccontavano  cose diverse tutte allo stesso modo. Come se fossero schegge che orbitano attorno ad un nucleo, e quel nucleo siamo noi e chi ci ascolta. Quindi no, non è un concept album scritto a tavolino. Ma sì, è un racconto unico, cresciuto in modo organico, come se le tracce sapessero di far parte di un disastro più grande. Un disastro bello, però.
 
C’è un momento preciso in cui avete capito che stavate creando qualcosa di unico?
Dire che è qualcosa di unico è un po’ troppo pretenzioso per come siamo fatti noi. Più che altro si tratta di qualcosa di “nostro”. È il nostro modo di suonare, di raccontare le cose, ed è uno spazio libero aperto a tutti. Completamente slegato da logiche “utili” o da scelte efficaci. Ecco forse è proprio questo ci rende unici nel panorama musicale!
 
Lavorate in modo collettivo o c’è una figura centrale nella composizione?
La composizione è un flusso caotico e collaborativo: uno lancia unidea, laltro la distorce, il terzo dice che fa schifo, il quarto la ama e la registra al contrario. Funziona così. A volte una traccia nasce da un groove di batteria, altre da una frase detta a caso tipo sembra il suono che farebbe unastronave in paranoia”. C’è chi ha lorecchio, chi ha la visione, chi trova il suono. Insomma tutti contribuiscono.
 
Qual è stata la prima canzone completata del disco e quale l’ultima?
Free your mind è un pezzo che orbitava nelle nostre scalette già da molto tempo, forse esisteva ancora prima della nascita ufficiale della band. Dojo song e Glacier 51 invece sono nate poco tempo prima di registrare, noi le amiamo anche per questo, perchè nella registrazione si percepisce come stessero ancora provando stupore nel fare esperienza del proprio respiro.

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