La canzone d’autore che nel sangue ha quel DNA folk di un narratore di storia e di storie, di allegorie ma anche di memoria umana, sociale… ma anche politica. Quel folk che dalla radice poi diviene pop italiano, d’autore e di sentimento, di sensibilità e di coraggio. Francesco Lattanzi ci regala un disco alto, impegnato e impegnativo, che sin dal titolo e dalla sua copertina mette in scena contrasti e allusioni: “Alla morte”, disco però di rinascita e di nuova vita, di speranza soprattutto. Disco a pastello nelle sue delicatezze come appare sin dall’immagine di copertina. Disco di storia dicevamo, che parla degli uomini, delle loro guerre… come nel bellissimo video “Gli angeli di Horlivka” narrato con un piglio saggio ed elegante dal regista bielorusso Dmitrij Dedok.
Oggi la canzone d’autore ha perduto centralità… il tuo punto di vista in merito?
Volendo fare un discorso utilitaristico potremmo dire che la musica è sempre stata anche, non solo, ma anche, un business. Solo che negli anni sessanta e settanta, e in certi casi fino ai primi anni ottanta, il guadagno che derivava dalle vendite dei dischi era meritato. Era raro, nelle prime due decadi citate, ascoltare cose di basso livello. Oggi la mediocrità degli artisti e di ciò che questi incidono, è la regola. Non so da cosa derivi questa crisi qualitativa della musica, ma è un dato di fatto, non la mia opinione. Forse oggi un Baglioni o un Guccini, tanto per fare due nomi, l’elenco è lungo per fortuna, rimarrebbero nell’ombra, tale è la volontaria scelta da parte delle case discografiche e dei manager di propinare quelle che Franco Battiato chiamava “immondizie musicali”. Senza voler fare il sociologo, è possibile anche che vi sia una scelta deliberata da parte di chi governa la cultura e la musica, di offrire un prodotto senza profilo, melenso, insignificante, a volte irritante per la sua piattezza, proprio per non alzare il livello culturale del paese e di conseguenza per impedire che la gente arricchendosi possa pensare con la propria testa e quindi anche criticare, contestare.
Volendo fare un discorso utilitaristico potremmo dire che la musica è sempre stata anche, non solo, ma anche, un business. Solo che negli anni sessanta e settanta, e in certi casi fino ai primi anni ottanta, il guadagno che derivava dalle vendite dei dischi era meritato. Era raro, nelle prime due decadi citate, ascoltare cose di basso livello. Oggi la mediocrità degli artisti e di ciò che questi incidono, è la regola. Non so da cosa derivi questa crisi qualitativa della musica, ma è un dato di fatto, non la mia opinione. Forse oggi un Baglioni o un Guccini, tanto per fare due nomi, l’elenco è lungo per fortuna, rimarrebbero nell’ombra, tale è la volontaria scelta da parte delle case discografiche e dei manager di propinare quelle che Franco Battiato chiamava “immondizie musicali”. Senza voler fare il sociologo, è possibile anche che vi sia una scelta deliberata da parte di chi governa la cultura e la musica, di offrire un prodotto senza profilo, melenso, insignificante, a volte irritante per la sua piattezza, proprio per non alzare il livello culturale del paese e di conseguenza per impedire che la gente arricchendosi possa pensare con la propria testa e quindi anche criticare, contestare.
E dunque, vista la grande indifferenza che si rivolge alla musica oggi, per te che senso prende un disco e la sua vita mediatica?
Ha senso perché, in virtù di ciò che ho detto prima, credo che l’unica risposta possibile sia quella di non arrendersi, anzi continuare a lavorare sodo e proporre un prodotto quanto più curato possibile. Io quando finisco un lavoro musicale, devo sentirmi non compiaciuto, perché sono e sarò sempre l’ultimo a poter e dover giudicare una mia opera, è sempre la storia a giudicarti e a collocarti in alto o in basso, debbo però sentirmi soddisfatto perché per arrivare a quel risultato ce l’ho messa tutta. E’ così che lavoro con i musicisti che mi accompagnano in questo percorso.
Ha senso perché, in virtù di ciò che ho detto prima, credo che l’unica risposta possibile sia quella di non arrendersi, anzi continuare a lavorare sodo e proporre un prodotto quanto più curato possibile. Io quando finisco un lavoro musicale, devo sentirmi non compiaciuto, perché sono e sarò sempre l’ultimo a poter e dover giudicare una mia opera, è sempre la storia a giudicarti e a collocarti in alto o in basso, debbo però sentirmi soddisfatto perché per arrivare a quel risultato ce l’ho messa tutta. E’ così che lavoro con i musicisti che mi accompagnano in questo percorso.
Parliamo del suono di “Alla morte”: anche qui ci sono ampi richiami al passato. O sbaglio?
Non sbagli per niente. Qui dovremmo aprire una parentesi molto ampia perché su questa questione praticamente tutti i tuoi colleghi mi hanno chiesto il perché di tale scelta. “Alla morte” potrebbe sembrare un disco vecchio perché con Gianni Ferretti ed Andrea Mattei (i due arrangiatori) non abbiamo utilizzato suoni e tecnologie all’avanguardia . Innanzitutto noi non guardiamo il lavoro degli altri, ci concentriamo sul nostro, e poi cosa dovremmo fare se il mercato ci impone determinate sonorità ? Adeguarci ? Farci omologare perché così abbiamo più possibilità di vendere ? Oltre a queste considerazioni ve ne sottopongo un’altra ancora più importante, le storie che racconto in questo album, le parole che uso, i testi che ho scritto per modellare quelle stesse storie non hanno bisogno altro che di sonorità adeguate. Di musica che accompagni quelle parole, non di rumore che possa offuscare e soffocare quelle stesse parole. Vi faccio del resto l’esempio di un concerto di musica classica al termine del quale tutti contenti delle belle linee melodiche si chiedessero però “tutto bello, tutto perfetto, però qualcosa non torna: perché in un concerto di terzo millennio non ci sono i sintetizzatori ?” Avrebbe senso secondo voi ?
Nel disco anche due omaggi se non erro, vero? E parliamo di tue personali traduzioni…
Gli originali, “Streets of London” e “Vincent” , sono due capolavori e raccontano di storie in linea con l’argomento che fa da denominatore comune del disco. Anche qui in recenti interviste ho fatto notare come paradossalmente mi riesca meglio confrontarmi con delle traduzioni e adattamenti di testi, piuttosto che scrivere di mio pugno. Nelle mie canzoni posso portare il discorso dove voglio, nelle cover no, debbo un minimo sottostare a ciò che l’autore originale racconta, e questo per rispetto verso chi ha scritto per primo quel testo e per non snaturare la storia stessa del brano. Sarebbe troppo comodo usare quella stessa musica e comporci un testo ex-novo raccontando tutta un’altra storia, e soprattutto ripeto, sarebbe non molto carino nei confronti degli autori che per primi hanno avuto quell’idea. La cosa è complicata anche dal fatto che, quando mi cimento in queste traduzioni, divento un mezzo maniaco della forma, la metrica deve essere la stessa, le strofe devono mantenere la loro integrità, le pause, il senso generale, la parte armonica che non deve discostarsi troppo da quella del disco originale. Insomma mi ci impegno. E ho invitato anche gli altri ragazzi a fare altrettanto.
E questo bel video? Come nasce l’ispirazione del brano e la collaborazione con Dmitrij Dedok?
Nel luglio del 2014. Quando l’esercito ucraino bombardò la città di Horlivka (Gorlovka in russo). E’ una città relativamente grande, tra Luhansk e Donetsk. Quegli eventi, perpetuatisi per otto anni, sono passati inosservati, ma il fatto che nessuno li abbia raccontati, o meglio, il fatto che in molti li abbiano ignorati, snobbati e persino nascosti all’attenzione del pubblico, non significa che non siano accaduti. Come mai questo disinteresse per quelle vittime ? Quei morti sono forse diversi da quelli di oggi ? Le cose sono andate così: avevo terminato tutti i testi delle canzoni, li feci leggere ad una mia amica bielorussa che viveva e lavorava in Italia. Rimase colpita dalla storia narrata in questo brano. Si parla della seconda guerra mondiale e parallelamente della guerra in Donbass. Spiegai che avevo iniziato a scrivere quel testo dopo aver visto l’immagine di Kira e Kristina Zhuk, madre e figlia colpite a morte il ventisette luglio 2014 dall’artiglieria ucraina in un parco della città di Horlivka, mentre erano a passeggio. Questa mia amica, mi suggerì di girare un video relativo al brano e mi mise in contatto con un giovane regista bielorusso, suo conoscente, appunto Dima. Iniziammo con Dmitri una corrispondenza che ci portò a stabilire quali potevano essere le linee guida del video, poi volai in Bielorussia e partecipai anche ad alcune riprese del videoclip. Abbiamo elaborato anche una versione coi sottotitoli in russo. Sono entrambi presenti in rete. Tutta l’attrezzatura utilizzata nel video è l’esatta riproposizione di ciò che avremmo visto nel 1941. Perfino il luogo in cui è sono avvenute le riprese, è un villaggio non lontano da Minsk, di nome Kamen’ka, rimasto così come lo avremmo visto durante la guerra. Le divise dei soldati, le isbe con le stufe in muratura, addirittura le sigarette, tutti i dettagli sono stati studiati per apparire come all’epoca dei fatti. Sono rimasto talmente entusiasta del lavoro svolto da questi ragazzi che ho già in mente un nuovo progetto da realizzare sempre in quei luoghi e sempre relativo a quegli eventi. Ma con alle spalle una produzione maggiore. Di più non posso dire.